martedì 17 maggio 2016

Wrapped around your finger

Quella paura la conoscevo bene. Quel senso di vuoto…di stordimento, come se tutto intorno a te vorticasse senza senso, mi era altrettanto familiare. La testa mi martellava, il sudore mi colava lungo la schiena e dietro il collo, mentre il cuore era sul punto di esplodere.
Chiusi gli occhi e i brividi mi percorsero il corpo, penetrando sotto la pelle, fin dentro le ossa. Tremai. Volevo la pace, volevo solo un po’ di silenzio, nient’altro, solo quello. Ma cercavo cose troppo perfette in un mondo dove, di perfezione, non ce n’era neanche un po’.
Socchiusi gli occhi e vidi il buio.
C’era solo quello intorno a me.
Aprii la bocca in cerca di aria, ma ad ogni respiro affannato sentivo come se i polmoni fossero sul punto di andare in fiamme.
Un altro incubo, sussurrò la vocina nella mia testa, un altro passo vicino al tuo prosciugamento.
Un altro passo vicino al tuo prosciugamento.
Rabbrividii e percepii il freddo fino al midollo.
Cosa diavolo avevo fatto per meritarmi tutto quello? Perché io, di certo, non lo sapevo.
Ruotai la testa sul cuscino e controllai l’orario sulla sveglia digitale. Le tre di notte. Imprecai contro me stessa e sperai di non aver svegliato nessuno con le grida. A volte mi capitava di farlo, di urlare intendo. Era una cosa che non riuscivo a controllare.
Mi tirai su a sedere e mi massaggiai le tempie. Avevo come l’impressione di aver infilato il cervello nella centrifuga di una lavatrice.
«Tutto okay?»  La voce di Calla mi giunse alle orecchie come un bisbiglio lontano, e quel suono riuscì a penetrare nella nebbia sempre più fitta che avevo nella mia testa. «Brutto sogno?»
Era un brutto sogno quello che avevo appena fatto? No, certo che no. Era molto peggio, era  qualcosa di atroce,  qualcosa capace di farti provare il dolore di un cuore strappato, lacerato, ridotto a poco più che miseri brandelli. Il dolore di un cuore nero.
Mi strofinai le mani sulle braccia nude. Avevo improvvisamente freddo. E quel gelo non veniva dall’esterno, ma da dentro, dal cuore nero che avevo. «Sì, ma ora è tutto okay.»
L’estate.
Ero lì per vivere l’estate, ero lì, nella casa sulla spiaggia della mia compagna di stanza, per sentirmi più… viva. Volevo mettere da parte i brutti ricordi, volevo cancellare un po’ di passato, ma era come cercare di afferrare l’aria: praticamente impossibile.
Calla si mosse nel buio della stanza e sentii il fruscio delle lenzuola. «Va bene, se succede qualcosa… sono qui.»
Annuii, ma poi mi ricordai che non poteva vedermi e sussurrai un debole “sì”. Di certo non sarei andata a chiederle aiuto: il peso era mio e soltanto mio.
Fissai il cielo scuro come la pece fuori la finestra, mentre Calla tornava a scivolare in un sonno profondo.
C’erano le stelle? Erano stelle quelle che trapuntavano il cielo? Quelle che sembravano tanti punti luminosi ai miei occhi sempre più offuscati dalle lacrime?
Mi morsi le labbra. Volevo infliggermi dolore, provare, dire a me stessa e convincermi di essere ancora viva. Ma non avrei pianto. Ero più forte del caos nella mia testa. Dovevo esserlo.
«Sam!»
Quella voce.
Avrei riconosciuto ovunque quella voce.
Balzai giù dal letto.
Un sassolino colpì la finestra.
Mi venne da sorridere.
Era lì.
«Sam.»
I miei piedi non fecero rumore sul pavimento di legno quando mi avvicinai alla finestra, e l’aria della notte mi diede una leggera scossa di energia quando lasciai che l’odore di salsedine riempisse la camera.
Un brivido di piacere mi percorse la spina dorsale.
L’oceano.
La sabbia, il rumore delle onde, le stelle.
E poi i suoi occhi.
Verdi.
Verdi come vetri levigati dal mare.
La casa per una dannata come me.
«Alec.» Lo dissi tutto d’un fiato, con il cuore in gola e un leggero tremolio delle ginocchia.
Alec… l’unica persona che mi era rimasta vicina dai tempi del liceo, da quando mi ero trasformata in un mostro... da quando ero stata trasformata in un’altra. «Che diavolo ci fai qui?» Perché io davvero non lo sapevo. A volte era così strano.
«Vengo a rapirti.» Sorrise e gli si illuminò lo sguardo.
Il sorriso dei disgraziati, diceva mia nonna.
E aveva ragione.
Lanciai un’occhiata a Calla che dormiva poco più in là e poi tornai a fissare lui appollaiato sul ramo dell’albero.
«Cosa vuoi?» Non ero in vena di scherzi o altro. Volevo solo cercare di dormire, cercare di essere normale.
Alec si passò una mano tra i capelli blu come la notte e scrollò le spalle. Mi chiesi come avesse fatto ad arrampicarsi lassù. «Volevo sapere se ti andava un giro da qualche parte.»
Inarcai un sopracciglio. «Come fai a farti venire certe idee alle tre di notte?»
Sollevò un angolo della bocca e una piccola fossetta gli si formò sulla guancia destra. «Non lo so. Allora… vieni sì o no?»
Mi trattenni dall’alzare gli occhi al cielo. «Non so. Tu che dici?»
Alec pasticciò un sorriso, uno di quelli che mi facevano sciogliere come il burro al sole, uno di quelli che sarebbero stati in grado di far breccia e scavare dentro di me. «Muoviti.»
E non mi feci dire altro.
Recuperai la prima cosa decente che avevo nell’armadio e l’indossai, poi sgattaiolai fuori la finestra.
Al diavolo le regole, al diavolo mia madre che mi ripeteva di continuo di comportarmi come una brava ragazza, al diavolo i suoi consigli, perché non avevano fatto altro che portarmi alla distruzione. E quello che ero lo dovevo in parte a lei. Dovevo a lei gli incubi, la bilancia che mi terrorizzava e il cibo che avevo iniziato ad odiare da tempo.
«Un giorno mi sparirai tra le braccia.»
Mi venne quasi da ridere, ma non c’era proprio nulla di divertente. «Stai zitto e aiutami a scendere.» E lo fece.
Alec non era un tipo molto ordinato e la sua auto ne era la prova. Noccioline e vecchi incarti di caramelle erano sui sedili dell’auto, che odorava di pelle e profumo da uomo. Sul sediolino posteriore c’era una vecchia chitarra e un giubbotto di pelle che aveva di sicuro visto giorni migliori.
 «Hai mai pensato di dare una ripulita a questo schifo?»
Alec non rispose, mise in moto e abbozzò un sorriso un po’ storto. «Almeno non ha il tettuccio… un po’ come nei video musicali.»
Scossi la testa e lo fissai. Alcuni ciuffi di capelli rosso fuoco mi erano scivolati sugli occhi e me li scostai con uno sbuffo. La stanchezza era tornata tutta d’un tratto, e mi sembrava quasi di avere due budini al posto delle ginocchia. «Dove andiamo di preciso?»
«Verso l’infinito.»
Sorrisi. Un sorriso vero, un sorriso che mi costò un po’ di fatica, ma che riuscii a far spuntare.
Poi sfrecciammo via, il vento tra i capelli e l’oceano che ci scorreva accanto in una notte di stelle.
Respirai.
San Francisco.
Alzai la testa e fissai il cielo.
Eccola, proprio tra le mani, lì tra le strade deserte, incastrata tra il cielo e la terra, tra l’inferno e il paradiso sentivo la libertà.
Abbandonai la testa contro lo schienale del sediolino e sorrisi quando il vento mi scompigliò i capelli rossi.
San Francisco.
«La senti? La senti, Sam?»
Voltai la testa e lo vidi ridere. Ingranò la marcia e accelerò.
«Sì, Alec, la sento.»
L’infinito. Stavamo guidando davvero verso l’infinito. Fuori dalla città, verso  qualcosa che neanche noi conoscevamo, verso  qualcosa che ci avrebbe strappato via da tutto quello che ci circondava.
Gettai il capo all’indietro e assaporai l’odore dell’oceano, dell’asfalto, dell’estate e poi il profumo di Alec. Qualcosa di unico.
Le sue dita affusolate mi percorsero il braccio, giocherellando con i bracciali e le dita affusolate, mentre con l’altra mano stringeva il volante.
Mi voltai a guardarlo e scoppiai a ridere. «Che fai?»
Piegò un angolo della bocca verso l’alto e fissò la strada davanti a sé. «Cosa faccio? Niente.»
Scossi la testa e allungai le gambe schifosamente bianche sul cruscotto. «Tu sei pazzo.» Ed era vero.
Lui non parlò, mi lanciò solo una breve occhiata e poi sfrecciò lungo la strada.
Alzai il volume della radio e lasciai che i Blink 182 mi riempissero la testa con Feeling This.
L’infinito lo raggiungemmo e insieme a quello anche la follia. Su di un altopiano, con il vuoto e l’oceano davanti, le stelle sopra di noi e migliaia di piccole luci che prendevano vita ai nostri piedi.
Chiusi gli occhi.
San Francisco.
L’estate.
Alec.
Mi batté più forte il cuore.
«Lo sai che siamo due scemi?»
Nessuna risposta.
Mi rabbuiai.
«Alec?»
I suoi occhi verdi si piantarono nei miei, gelidi, taglienti, con le luci della città che gli si riflettevano dentro. «Hai avuto gli incubi, vero?»
Il cuore.
Dov’era finito il mio cuore?
«Non stai prendendo più i sonniferi, giusto?»
No. «Sì.»
Alec strinse il volante e le nocche gli divennero bianche. «Bugiarda. Sei solo una bugiarda.»
Ero una bugiarda, una falsa, una povera dannata in un mondo di ipocriti, ma questo non glielo dissi.
 «Non capisci.» E mai avrebbe capito. Io ero persa e nessuno se ne sarebbe accorto. «Non posso prenderli sempre.»
Il suo grido di rabbia soffocato mi fece sussultare. «Smettila di fare la vittima.»
Vittima.
Le sue parole smossero  qualcosa,  qualcosa di troppo grande e oscuro dentro me. Raddrizzai la schiena e spalancai gli occhi. I capelli rossi mi scivolarono lungo le guance e sentii la pelle andare in fiamme. «Non chiamarmi in quel modo.»
«Come? Vittima?» Rise di una risata amara. «Ti chiudi in te stessa, tagli fuori tutti e non fai altro che startene da sola. Fai la vittima. La vittima di un passato morto.»
Non aprii bocca, non c’era bisogno di farlo. Chinai la testa e mi fissai le unghie. Le lacrime erano tornate a pizzicarmi gli occhi, ma questa volta più amare, più dolorose.
Chiusi gli occhi per un attimo, poi rialzai il capo e fissai San Francisco ai nostri piedi. «Lo sogno ancora.» Dirlo mi fece un male cane al petto, ma strinsi i denti. «Sogno ancora lui e la n…» Un grumo di bile mi salì alla gola. Tacqui.
Ma Alec no, e le sue parole mi fecero male più di qualsiasi altra tortura. «La notte in cui ti ha violentata.»
Silenzio.
Silenzio dentro e fuori la mia testa.
Non mi piaceva ripensare a Bradley, non mi piaceva pensare che per anni avevo creduto di aver di nuovo un padre e poi scoprire che non era così. Non mi piaceva per niente.
Alzai la testa. «Basta.» In un nanosecondo mi catapultai fuori dall’auto e lui mi seguì. L’odore dell’estate era ovunque e mi stava addosso come un vestito.
Guardai San Francisco ai nostri piedi e mi resi conto che non c’era posto al mondo più bello di quello. Migliaia di piccoli puntini luminosi dai mille colori dipingevano la città e la facevano risplendere nella notte.
«L’estate.» Le braccia di Alec mi circondarono, cogliendomi di sorpresa, e la sua testa si incastrò nell’incavo del mio collo. In un attimo tutto sembrò scivolare via. Gli incubi, i ricordi, le risate di scherno… era tutto svanito.
Sorrisi. «Già, l’estate.»
Restammo così per un po’, i fari dell’auto ancora accesi, la radio che dava una vecchia canzone dei Green Day e la città ai nostri piedi.
Poi le labbra di Alec mi accarezzarono la pelle dietro l’orecchio e i brividi mi percorsero il corpo. «Sono sotto il tuo controllo.»
E il mio stupido cuore nero per un attimo si colorò di mille colori.

Ida Cantone

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