Nel 1985 fa la sua comparsa nelle librerie di tutto il modo, dopo una
lunga trattativa con le case editrici che non appoggiavano il progetto, “la
Città della Gioia”, libro scritto da Dominique Lapierre,scrittore e giornalista
,dopo tre lunghi anni di permanenza in una bidonville di Calcutta in India.
Lapierre rimase profondamente scosso da quest’esperienza
che decise di documentarla e così, da quest’idea, nasce “La Città della Gioia”.
Il romanzo diventa ben presto fenomeno editoriale-vendendo più di 3milioni
copie nel mondo-coinvolgendo ed appassionando milioni di lettori.
Molti, leggendo i primi capitoli, si chiederanno:”perché
questo libro ,così’ triste e tedioso, ha avuto tanto successo?”
La risposta a questa domanda non è semplice.
La “Città della Gioia” non è un romanzo d’avventura né un thriller né tantomeno un harmony, non è
neanche un libro sulle condizioni di vita dell’ India,come dice lo stesso
Lapierre: “è una lunga ed estenuante testimonianza di vita ed esperienza vera,
dell’esistenza troppo spesso ignorata, di persone che vivono, o meglio, cercano
di sopravvivere ogni giorno nelle
bidonville di Calcutta dove persino la morte prematura è così frequentemente cosa quotidiana , da risultare
persino banale.”
Comprendere questo
libro nelle sue mille sfaccettature è cosa complicata. Molti lettori giovani
potrebbero essere annoiati dalla storia, perché si può quasi dire che il libro
sia privo di trama, ma io sono convinta che non si può leggere questo romanzo
senza che ti lasci qualcosa.
Io sono rimasta profondamente colpita da questo libro. Nella storia i tre
protagonisti in rilievo sono:
-Hasari Pal, contadino indiano che lascia il suo
pacifico villaggio per rifugiarsi nella frenetica Calcutta in seguito ad una
serie di cattivi raccolti;
-Paul Lambert, sacerdote francese, che decide di
dedicare la propria vita ai poveri;
-Max Loeb, giovane medico americano, che risponde ad una
lettera d’appello di Paul Lambert e si reca al servizio della miseria proprio
nella bidonville di Anand Nagar, nome che significa letteralmente “La Città
della Gioia”, dove la miseria e la degradazione sono devastanti.
Gli “inquilini” vivono in condizioni pessime, senza
acqua e senza latrine, in un posto in cui una semplice pioggerella può
provocare un’ inondazione.
Lapierre, dando il nome “città della gioia” alla
bidonville, fa una scelta diretta...
quasi ironica.
Molti si chiederanno:”come può essere definita gioiosa
una simile landa di morte?”
La riposta a questa domanda è la ragione che ha
appassionato e commosso migliaia di lettori,perché nella Città della Gioia,
nella povertà più totale c’è sempre
quella luce che tutti conosciamo e che non ci abbandona mai: la
speranza.
Perché senza speranza non saremmo uomini. Dovremmo
comportarci tutti come Hasari Pal che, anche in uno dei periodi più tristi di
convivenza nello Slum, arrivando persino
a vendere il sangue e ad impegnare il suo corpo dopo la morte per la famiglia,
non perse mai la speranza, anzi!
Paul Lambert in
una delle sua prime celebrazioni eucaristiche nello slum disse ai volti
raggianti che lo osservavano sotto al suo altare improvvisato:”Voi siete la
luce del mondo”, questa frase racchiude in sé tutto il significato generale del
libro, perché in quel povero, misero covo di degrado, le luci della anime dei
lebbrosi, del malati e dei bambini non smettevano mai di brillar, e così,
saranno sempre vive, quasi a sfidare il
consumistico mondo odierno, quasi a sfidarlo, a chiedergli:”anche da
povero io sono felice, tu nella tua ricchezza perché non riesci ad esserlo?”
E come dimenticare e non pensare ai bambini, vittime
della denutrizione e della malattia, che con il loro sorriso sincero-che ci
accompagna per tutta la durata della lettura del libro- riescono a sorprendere
sempre, ridendo anche di fronte ad una morte certa, per fame.
Come disse ancora una volta Lambert:”Il mio miracolo
aveva il volto di una bambina vestita di bianco, con un fiore rosso tra i
capelli, che camminava come una regina in mezzo a tutta quella merda”.
C’è un’altra frase che rappresenta bene gli inquilini
della Città della Gioia (i veri protagonisti della storia) ed è :” Le avversità
sono grandi , ma l’uomo è più grande delle avversità”. Ed è questo che hanno fatto i cittadini della Città della
gioia, hanno saputo riemergere ancora, ancora e ancora dalle difficoltà.
E come parlare di Calcutta, senza nominare madre Teresa,
la dolce,piccola,grande suora che con il suo grande amore e la sua fede, ha
fatto di tutto per migliorare la vita nella città ed in India, ed è
riuscita col suo cuore a riportare il
sorriso anche sui volti più sfigurati dalla malattia.
Madre Teresa fu anche mentore e superiore di Lambert,
che col suo aiuto riuscì a fondare un lebbrosario nello slum salvando così da
morte certa migliaia di persone.
Max Loeb dopo qualche anno trascorso come medico ad
Anand Nagar, tornò in America ma affermò che:”l’esperienza in uno slum indiano è l’avventura più eccezionale che
potesse vivere un uomo nel 2000”. Quel soggiorno trasformò completamente la
vita di Max,che ancora oggi, insieme alla moglie Sylvia gestisce
un’associazione a favore dei poveri degli slum
indiani.
Per quanto mi riguarda, questo libro mi ha lasciato
molto, mi ha scosso e cambiato profondamente, ha modificato il mio modo di
pensare.
E ora so che quando starò per soffermarmi su insulse
forme di autocommiserazione richiamerò alla mente i sorrisi sinceri dei volti
della Città della gioia, per ribadirmi di tornare a sperare e per ricordare che
c’è sempre chi al mondo sta peggio di me, ma che non perde la speranza e riesce
ad utilizzare il sorriso come arma, contro ogni cosa.
Prenderò esempio dai cittadini dello slum che nei
momenti più critici non hanno mai smesso di vivere.
Dopo il successo del libro, che col suo messaggio di
amore e speranza nelle più estreme condizioni ha scosso l’anima di migliaia di
persone, la casella postale di Dominique Lapierre è stata inondata di lettere
dei fan e donazioni provenienti da ogni parte del mondo con le quali Lapierre
ha fondato, insieme al ricavato della vendita del romanzo, un’associazione che
si occupa di bambini malnutriti e dei
malati che vivono nei sobborghi di Calcutta.
In conclusione il vero, sincero messaggio del libro è la
speranza, che viene dall’ amore che non
ha bisogno di condizioni particolari per esistere. Alimenta il coraggio di non arrendersi e di risorgere
dalle avversità e a mio parere ognuno di noi ha il diritto e il dovere di
donare un po’ di felicità a chicchessia, proprio come hanno fatto e continuano
a fare gli abitanti di Anand nagar.
Castaldo Fabiola
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