venerdì 12 febbraio 2016

Ancora

Lo guardavo immobile mentre raccoglieva il più velocemente possibile le sue cose. Più che altro si limitava a gettare meccanicamente in una borsa tutto ciò che gli capitasse tra le mani, facendo particolare attenzione a non incrociare i miei occhi.
La sua indifferenza era la cosa che più mi feriva.
Fino a quel momento non mi ero mai resa conto di quanto importante fosse per me, di quanto avessi bisogno del suo sorriso, dei suoi occhi che mi attraversavano fino a sfiorarmi l’anima. Dio, i suoi occhi... ci vivevo in quelle iridi, sempre così trasparenti, così profonde. Era lo spettacolo più bello che avessi mai visto, e mai vedrò. Solo lui. Potrebbe sembrare banale, e lo sarebbe sembrato anche a me fino a pochi istanti fa, ma a volte le cose più scontate sono quelle più preziose. Ecco cosa era lui per me: prezioso. Ancora non mi spiego come abbia potuto, io che con la mia facciata da dura tendevo a respingere tutti, col mio cuore di ghiaccio riuscivo a spegnere tutto. Ma lui no, lui non sono mai riuscita a spegnerlo, come una fiamma che riprende ogni volta a bruciare, incendiarsi, con sempre maggiore intensità.
E ci è riuscito, ad incendiarmi il cuore.
Ora sono sola.


Una solitudine che viene da dentro, un vuoto che mi logora, mi divora poco a poco fino a consumarmi.
Mi ero ripromessa di non lasciarmi andare, non più. I sentimenti, l’amore, non facevano per me. Io non facevo per loro. Brandon Hamilton, neanche lui faceva per me.
Mio padre era morto quando avevo solo cinque anni, abbastanza da ricordarmi che lui e la mamma non andassero molto d’accordo, se non per niente. Però lo amava, eccome se lo amava.
Era il padre migliore che potessi desiderare, e forse, in qualche posto, continua ad esserlo.
Così mia madre dovette fare i conti con la vita, una vita che non guarda in faccia a nessuno, e con me. La ragione principale per la quale credo continuasse ad andare avanti ero io, e lo capisco ancora oggi ogni volta che la guardo negli occhi. Occhi stanchi, di chi ha amato tanto e alla quale non è rimasto più nulla da dare: anche lei lo amava e lo ama, solo ha imparato a farlo in silenzio. Lo amava così tanto da rinunciarvi, da mettere il suo bene prima di tutto, della sua felicità.
Una sera io e la mamma eravamo in casa quando mio padre rientrò. Era sbronzo, puzzava di alcol, e gridava, Dio se gridava. Poi cominciò a distruggere tutto… non ricordo molto di quella sera, ma ricordo la mamma in lacrime, e ben presto anche le mie guance furono rigate da esili gocce di acqua salata. Da quel giorno non rientrò più per un po’, e quando provavo a chiedere di lui, venivo liquidata con la promessa che sarebbe tornato presto, ma non tornava mai. Un giorno però varcò la soglia di casa, di nuovo. Aveva anche smesso, a suo dire. Ma si sa che una dipendenza non smette di essere tale da un momento all’ altro, da un giorno all’altro. Fu allora che credo mia madre si accorse di non poter fare più nulla, di doverlo lasciare andare.
Ed io?
Che motivi avevo per farmi lasciare andare?
Non lo sapevo.
Eppure ero lì, con di fronte forse l’unica persona che fosse mai riuscita ad amarmi, a chiedergli di lasciarmi andare.
Dimenticarmi per un po’ così da potermi dimenticare a sua volta di lui, allentare questa dipendenza che era diventato.
Nonostante ciò sapevo che una parte di me non voleva essere dimenticata.
Ma cosa potevo farci?
Non era forse più doloroso doverci fare i conti tutti i giorni?
Noi eravamo così. Tutto e niente. Odio e amore. Amore, amicizia, indifferenza, e poi ancora amore.
Il confine era così labile che a volte neanche riuscivo a percepirlo.
Non me lo aveva mai detto, di amarmi.
Faceva ciò che voleva, passava il suo tempo in compagnia di altre ragazze, ma poi ritornava sempre, a volte dopo poco, altre dopo giorni. Io ero lì, lo odiavo, e intanto lo aspettavo. Un’attesa che non aveva mai fine. Ma lo capivo, che così non poteva continuare, e nonostante tutto continuavo a far finta di non vedere; la consapevolezza di possedere una parte del suo cuore, un po’del suo amore, il mio egoismo, erano più forti della ragione che mi suggeriva di scappare, allontanarmi, lasciarlo andare.
Continuava a giustificarsi dicendo di volermi bene, ed io un po’gli credevo, ogni volta, tutte le volte.
Ormai non mi bastava, volevo sempre di più, ma nonostante tutto avevo paura di ciò che provavo, delle conseguenze, paura di ciò in cui mi stavo cacciando.

Ed eccomi a chiedergli di andar via, avrei rifiutato la sua amicizia, la mia felicità, tutto purché uscisse dalla mia vita.
Ero un imperfetto disastro, un incrocio tra equilibrio e follia... non capivo cosa ci trovasse in me, ma eravamo troppo diversi per stare insieme, la luce e le tenebre e, per quanto forte potesse essere la luce, le tenebre restavano tali.
Non potevo.
Meritava di meglio e, per quanto potessi sforzarmi, il meglio non lo ero mai stata.
Le porte sbattevano, le lacrime mi rigavano le guance, e i pensieri non facevano altro che rigirarmi disordinati in la testa, attanagliandomi l’anima.
Un solo istante, e avevo perso tutto, ancora.

Nikla Nobis

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