sabato 12 dicembre 2015

Broken

Sapevo che era sbagliato quello che stavo per fare. Sapevo che non era giusto, che il mio cuore ne avrebbe sofferto ancora e poi ancora, consumandosi, lacerandosi, distruggendosi un po’ alla volta, fino a ridursi in migliaia di piccole schegge di vetro. Sapevo, sentivo e vedevo fino a che punto mi sarei potuta spingere. E quel confine, quell’enorme vuoto che mi avrebbe risucchiata, era più vicino di quanto avessi pensato fino a quel momento, eppure, nonostante tutto, non riuscivo a fermarmi. Non riuscivo a tornare indietro.
Il vento del Kentucky mi soffiava tra i capelli castani, la pioggia mi stava bagnando il viso, e il suo sapore dolciastro si mescolava a quello salato delle lacrime che mi rigavano le guance.
Le ruote della bici scivolavano sull’asfalto bagnato, mentre i tuoni squarciavano l’aria e l’odore forte di terra, fango e immondizia mi intossicavano i polmoni. L’intonaco alle pareti delle case che mi scorrevano affianco era scrostato e sporco, l’erba era secca e non curata e le auto malridotte. Quel posto non faceva per me, non era il genere di luogo da cui provenivo. Non mi apparteneva.
Malata.
Ecco cos’era la mia anima: malata.
Come si poteva essere feriti fino al punto di non guarigione, essere calpestati e massacrati e continuare a rialzarsi… continuare ad amare? Non me ne facevo ancora una ragione.
Lo vidi prima ancora che potessi smettere di pedalare. Non si poteva non farlo. Era come il sole: brillante, accecante, quasi doloroso.
Saltai giù dal sellino e la bici rossa cadde a terra, provocando un rumore sordo nel bel mezzo di quella strada deserta e disastrata. Disastrata proprio come me. Proprio come lui.
«Ashton!» gridai.
Alcune ciocche di capelli bagnati mi scivolarono davanti agli occhi e me le scostai con uno sbuffo.
Lui non si girò.
«Ashton!», ripetei e quel suono sembrò affettare l’aria e trafiggermi il petto quando lui continuò a darmi le spalle, i muscoli contratti sotto la t-shirt grigia e umida di pioggia. Corsi nella sua direzione, le mie converse consumate che sfregavano sul cemento grigio. «Guardami, Ash.»
Ma non lo fece.
Strinsi gli occhi e battei un piede a terra, frustrata. «Ti odio, lo sai? Ti odio!» Perché era vero. Ashton si avvicinava e poi spariva, mi attirava verso di lui e poi mi allontanava. Mi faceva impazzire e arrabbiare. Non lo sopportavo. Eppure a volte il confine tra odio e amore diventava così sottile che non riuscivo a percepire quale dei due provassi. E questo mi rendeva ancora più furiosa nei suoi confronti. Proprio come adesso. «Mi hai sentito? Ti odio!»
Lui per la prima volta voltò la testa nella mia direzione, i riccioli biondi come il miele gli coprivano la fronte bagnata dalla pioggia e le labbra carnose erano contratte in una smorfia di dolore.
«Torna a casa, Mare.»
Arricciai il naso. «Non mi dici cosa fare.» Motivo che spiegava anche il perché continuassi ad avvicinarmi a lui. Ashton era… era  qualcosa di complicato,  qualcosa che mi intrigava nel voler scoprire cosa nascondesse dietro quegli occhi verdi e che, allo stesso tempo, mi faceva tremare al pensiero di venirne a conoscenza.
«Se vuoi che lo faccia, guardami. Dillo in faccia che devo andarmene. Guardami.»
E poi si voltò. «America…»
Odiavo quando mi chiamava così. «Dillo, Ashton!»
Avvicinarmi a lui era stato uno sbaglio, un enorme sbaglio,  qualcosa che non avrei dovuto fare per niente. Le brave ragazze come me non frequentavano i cattivi ragazzi come lui. Non era giusto. Non era ciò che accadeva. Eppure era accaduto.
«Hai detto che mi avresti distrutta. Hai detto che mi avresti trascinata sul fondo se ti fossi stata vicina. E allora…», allargai le braccia e alzai la testa nella sua direzione, «… perché non lo fai? Non ho paura di te, non ho paura della tua famiglia problematica e tutti i segreti che nascondi. Non ho paura di niente.»
Ash rimase in silenzio, ma i muscoli delle spalle tornarono a contrarsi.   
Un tuono squarciò il cielo sopra le nostre teste e in gola mi si formò un grumo di bile.
«Vattene.»
Quella parola sussurrata nel caos della tempesta mi trafisse il cuore.
Era finita. Era finita sul serio. Altre lacrime, mi scorsero lungo le guance. Me le asciugai con il dorso della mano e tirai su col naso.
«Non piangere.»
«Non riesco a smettere.»
Eravamo sotto la pioggia, nel bel mezzo del nulla e il mio cuore era in frantumi, ordinarmi di non piangere sarebbe stato come chiedere al sole di non sorgere.
Ashton si strinse nelle spalle e lanciò un’occhiata alle finestre dell’appartamento dove suo zio Noah lo ospitava. I riccioli biondo miele gli si appiccicarono alla fronte quando abbassò il capo, fissandosi la punta delle scarpe consumate dal tempo.
Quella mattina, fuori scuola, subito dopo la consegna dei diplomi avevamo litigato. E ora non stavo affatto bene.
Lo guardai ficcarsi le mani in tasca e fare un passo indietro.
Mi sprofondò il cuore.
No.
Non poteva finire così.
Non poteva e non doveva.
Quando mi voltò le spalle la gola mi divenne come carta vetrata e nello stomaco le viscere si strinsero in un nodo fatale.
Aprii la bocca per fermarlo, mentre lui andava via, ma poi la richiusi. Lo rifeci e l’aria nei polmoni mi mancò per un attimo, il cervello mi si ingarbugliò.
Ashton raggiunse il marciapiede sporco e vi ci salì sopra, ma fu allora che ritornai in me. «Mi dispiace per oggi. Non volevo urlarti addosso. Ho sbagliato. Scusa.»
Lui si bloccò. Era alto, molto più alto di me, ma in quel momento mi parve rimpicciolirsi, diventando persino più piccolo di un bambino.
«Sono io quella sbagliata qui. Tu sei… sei Ashton… e io sono solo Mare.» C’era un’enorme distanza a separarci. Io andavo in chiesa la domenica, avevo una madre che mi preparava la colazione tutte le mattine e un padre che mi baciava ancora la fronte prima di andare a letto, mentre lui… lui era il mio esatto opposto. Non c’era l’odore del pasticcio di famiglia quando tornava a casa, non c’era il papà premuroso seduto sulla poltrona davanti al camino, o il cane fedele che veniva a scodinzolarti ai piedi al rientro. Non c’era niente di tutto questo per Ashton. Eppure lui c’era per me.
Abbassai la testa e mi nascosi tra i capelli bagnati. «Ma sono innamorata di te.»
Forse la pioggia portò via tutto quello che dissi, forse l’acqua che mi scivolava addosso fece in modo che le lacrime sulle mie guance non si notassero e, in parte, ne fui contenta, ma quando tornai ad alzare lo sguardo dai miei piedi non lo fui più.
Ashton mi guardava, i riccioli biondo scuro quasi completamente lisci. Nella tempesta, in mezzo ad un completo quartiere disastrato, tra spazzatura, droga e prostituzione lui sembrava così… così diverso. Come se fosse capitato lì per caso.
Voltò la testa e la piegò di lato, poi mi fissò.
No, fissò le mie labbra.
Mi mancò il respiro per un attimo, poi lui mi raggiunse, e qualcosa nel suo modo di camminare mi fece rabbrividire fino al midollo osseo e sentire il sangue bollirmi nelle vene allo stesso tempo. «Ashton…»
Lui scosse la testa. Mi prese il viso tra le mani e si chinò, premendo la fronte contro la mia.
«Non parlare.»
Socchiusi le labbra e risucchiai un respiro affannato. Avevo l’impressione che il mio cuore si stesse esibendo una serie di jeté e piroette senza fine, e che le mie guance avessero lo stesso colore di due pomodori arrostiti al sole. «Oookay.»
Ash sollevò un angolo della bocca in un sorriso.«Respira.»
«Va bene.»
Sollevò anche l’altro angolo della bocca.«Baciami.»
 Ma non obbedii, perché poi lui premette le labbra sulle mie e mi strappò il cuore, facendolo suo. E ne fui felice. Felice sul serio.
Perché ora stavo bene, proprio lì, tra le sue braccia. Dove una cattiva ragazza, come in realtà ero, doveva essere.

                                                                                                                            Ida Cantone

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