Sapevo che era sbagliato quello che stavo
per fare. Sapevo che non era giusto, che il mio cuore ne avrebbe
sofferto ancora e poi ancora, consumandosi, lacerandosi, distruggendosi un po’
alla volta, fino a ridursi in migliaia di piccole schegge di vetro. Sapevo,
sentivo e vedevo fino a che punto mi sarei potuta spingere. E quel confine,
quell’enorme vuoto che mi avrebbe risucchiata, era più vicino di quanto avessi
pensato fino a quel momento, eppure, nonostante tutto, non riuscivo a fermarmi.
Non riuscivo a tornare indietro.
Il vento del Kentucky mi soffiava tra i
capelli castani, la pioggia mi stava bagnando il viso, e il suo sapore
dolciastro si mescolava a quello salato delle lacrime che mi rigavano le
guance.

Malata.
Ecco cos’era la mia anima: malata.
Come si poteva essere feriti fino al punto
di non guarigione, essere calpestati e massacrati e continuare a rialzarsi…
continuare ad amare? Non me ne facevo ancora una ragione.
Lo vidi prima ancora che potessi smettere
di pedalare. Non si poteva non farlo. Era come il sole: brillante, accecante,
quasi doloroso.
Saltai giù dal sellino e la bici rossa
cadde a terra, provocando un rumore sordo nel bel mezzo di quella strada
deserta e disastrata. Disastrata proprio come me. Proprio come lui.
«Ashton!» gridai.
Alcune ciocche di capelli bagnati mi
scivolarono davanti agli occhi e me le scostai con uno sbuffo.
Lui non si girò.
«Ashton!», ripetei e quel suono sembrò
affettare l’aria e trafiggermi il petto quando lui continuò a darmi le spalle,
i muscoli contratti sotto la t-shirt grigia e umida di pioggia. Corsi nella sua
direzione, le mie converse consumate che sfregavano sul cemento grigio. «Guardami,
Ash.»
Ma non lo fece.
Strinsi gli occhi e battei un piede a
terra, frustrata. «Ti odio, lo sai? Ti odio!» Perché era vero. Ashton si
avvicinava e poi spariva, mi attirava verso di lui e poi mi allontanava. Mi
faceva impazzire e arrabbiare. Non lo sopportavo. Eppure a volte il confine tra
odio e amore diventava così sottile che non riuscivo a percepire quale dei due
provassi. E questo mi rendeva ancora più furiosa nei suoi confronti. Proprio
come adesso. «Mi hai sentito? Ti odio!»
Lui per la prima volta voltò la testa
nella mia direzione, i riccioli biondi come il miele gli coprivano la fronte
bagnata dalla pioggia e le labbra carnose erano contratte in una smorfia di
dolore.
«Torna a casa, Mare.»
Arricciai il naso. «Non mi dici cosa fare.»
Motivo che spiegava anche il perché continuassi ad avvicinarmi a lui. Ashton
era… era qualcosa di complicato, qualcosa che mi intrigava nel voler scoprire
cosa nascondesse dietro quegli occhi verdi e che, allo stesso tempo, mi faceva
tremare al pensiero di venirne a conoscenza.
«Se vuoi che lo faccia, guardami. Dillo in
faccia che devo andarmene. Guardami.»
E poi si voltò. «America…»
Odiavo quando mi chiamava così. «Dillo,
Ashton!»
Avvicinarmi a lui era stato uno sbaglio,
un enorme sbaglio, qualcosa che non
avrei dovuto fare per niente. Le brave ragazze come me non frequentavano i
cattivi ragazzi come lui. Non era giusto. Non era ciò che accadeva. Eppure era
accaduto.
«Hai detto che mi avresti distrutta. Hai
detto che mi avresti trascinata sul fondo se ti fossi stata vicina. E allora…»,
allargai le braccia e alzai la testa nella sua direzione, «… perché non lo fai?
Non ho paura di te, non ho paura della tua famiglia problematica e tutti i
segreti che nascondi. Non ho paura di niente.»
Ash rimase in silenzio, ma i muscoli delle
spalle tornarono a contrarsi.
Un tuono squarciò il cielo sopra le nostre
teste e in gola mi si formò un grumo di bile.
«Vattene.»
Quella parola sussurrata nel caos della
tempesta mi trafisse il cuore.
Era finita. Era finita sul serio. Altre
lacrime, mi scorsero lungo le guance. Me le asciugai con il dorso della mano e
tirai su col naso.
«Non piangere.»
«Non riesco a smettere.»
Eravamo sotto la pioggia, nel bel mezzo
del nulla e il mio cuore era in frantumi, ordinarmi di non piangere sarebbe
stato come chiedere al sole di non sorgere.
Ashton si strinse nelle spalle e lanciò
un’occhiata alle finestre dell’appartamento dove suo zio Noah lo ospitava. I
riccioli biondo miele gli si appiccicarono alla fronte quando abbassò il capo,
fissandosi la punta delle scarpe consumate dal tempo.
Quella mattina, fuori scuola, subito dopo
la consegna dei diplomi avevamo litigato. E ora non stavo affatto bene.
Lo guardai ficcarsi le mani in tasca e
fare un passo indietro.
Mi sprofondò il cuore.
No.
Non poteva finire così.
Non poteva e non doveva.
Quando mi voltò le spalle la gola mi
divenne come carta vetrata e nello stomaco le viscere si strinsero in un nodo
fatale.
Aprii la bocca per fermarlo, mentre lui
andava via, ma poi la richiusi. Lo rifeci e l’aria nei polmoni mi mancò per un
attimo, il cervello mi si ingarbugliò.
Ashton raggiunse il marciapiede sporco e
vi ci salì sopra, ma fu allora che ritornai in me. «Mi dispiace per oggi. Non
volevo urlarti addosso. Ho sbagliato. Scusa.»
Lui si bloccò. Era alto, molto più alto di
me, ma in quel momento mi parve rimpicciolirsi, diventando persino più piccolo
di un bambino.
«Sono io quella sbagliata qui. Tu sei… sei
Ashton… e io sono solo Mare.» C’era un’enorme distanza a separarci. Io andavo
in chiesa la domenica, avevo una madre che mi preparava la colazione tutte le
mattine e un padre che mi baciava ancora la fronte prima di andare a letto,
mentre lui… lui era il mio esatto opposto. Non c’era l’odore del pasticcio di
famiglia quando tornava a casa, non c’era il papà premuroso seduto sulla
poltrona davanti al camino, o il cane fedele che veniva a scodinzolarti ai
piedi al rientro. Non c’era niente di tutto questo per Ashton. Eppure lui c’era
per me.
Abbassai la testa e mi nascosi tra i
capelli bagnati. «Ma sono innamorata di te.»
Forse la pioggia portò via tutto quello
che dissi, forse l’acqua che mi scivolava addosso fece in modo che le lacrime
sulle mie guance non si notassero e, in parte, ne fui contenta, ma quando
tornai ad alzare lo sguardo dai miei piedi non lo fui più.
Ashton mi guardava, i riccioli biondo
scuro quasi completamente lisci. Nella tempesta, in mezzo ad un completo
quartiere disastrato, tra spazzatura, droga e prostituzione lui sembrava così…
così diverso. Come se fosse capitato lì per caso.
Voltò la testa e la piegò di lato, poi mi
fissò.
No, fissò le mie labbra.
Mi mancò il respiro per un attimo, poi lui
mi raggiunse, e qualcosa nel suo modo di camminare mi fece rabbrividire fino al
midollo osseo e sentire il sangue bollirmi nelle vene allo stesso tempo. «Ashton…»
Lui scosse la testa. Mi prese il viso tra
le mani e si chinò, premendo la fronte contro la mia.
«Non parlare.»
Socchiusi le labbra e risucchiai un
respiro affannato. Avevo l’impressione che il mio cuore si stesse esibendo una
serie di jeté e piroette senza fine, e che le mie guance avessero lo stesso
colore di due pomodori arrostiti al sole. «Oookay.»
Ash sollevò un angolo della bocca in un
sorriso.«Respira.»
«Va bene.»
Sollevò anche l’altro angolo della bocca.«Baciami.»

Perché ora stavo bene, proprio lì, tra le
sue braccia. Dove una cattiva ragazza, come in realtà ero, doveva essere.
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